venerdì 26 aprile 2019

25 Aprile 1945-2019: la Resistenza rappresenta le radici della nostra democrazia



Anche il 25 aprile è entrato nella campagna elettorale. Da un lato Salvini che cerca di intercettare i voti della destra e di quanti pensano che ormai, a tanti anni di distanza, non sia più il caso di parlarne, e dall’altro Di Maio che, per mera contrapposizione, cerca di denunciare il pericolo di negazionismo. Entrambi però sfuggono dal cuore del problema che è quello di fare memoria delle radici della nostra democrazia.

Purtroppo nell’ingolfamento dei giorni in cui si fa memoria di qualche evento straordinario, questa data rischia di essere derubricata mentre  ha una sua specifica portata genetica che dovrebbe continuare ad essere valorizzata: da quel giorno nascono infatti un regime di libertà, la democrazia, il percorso che porterà alla Costituzione.  Sicché potremmo definire il 25 aprile come la festa della liberazione (dal fascismo e dall’occupante nazista); la festa dell’indipendenza nazionale; la festa della sovranità del popolo; la festa dell’unità nazionale; la festa della libertà; la festa della solidarietà; la festa della democrazia; la festa della pace; la festa del recuperato prestigio e onore italiano davanti agli occhi del mondo.

Dovremmo ricordare che la nascita formale della Repubblica, come sappiamo, attraverso il referendum celebrato, regnante ancora Umberto II, fu salutata dalla stampa internazionale come un grande esempio di civiltà del nostro paese, e fu il primo riconoscimento positivo dopo l’umiliazione subita dalle tragiche avventure scatenate dal fascismo. E quando ci sarà il difficile rientro nel consesso internazionale il 10 agosto 1946, nella Conferenza della Pace di Parigi, all’Italia fu consentito di esprimere il proprio parere, pur nel clima ostile che aveva preparato un trattato di pace per noi particolarmente duro.

Il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi presentò come credenziali della nuova Italia l’unità delle forze antifasciste, con parole che vale la pena ancora oggi rileggere: “Signori, è vero, ho il dovere dinnanzi alla coscienza del mio paese, e per difendere la vitalità del mio popolo, di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico e antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in se le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire… Il rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato così profondo se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazione dei patrioti che in patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza l’intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l’abile azione clandestina degli uomini dell’opposizione parlamentare antifascista… Le perdite nella resistenza contro i tedeschi furono di oltre centomila uomini fra morti e dispersi, senza contare i militari e i civili vittime dei nazisti nei campi di sterminio, e i cinquantamila patrioti morti nella guerra partigiana”.

Questa lunga citazione per dire che la Resistenza non solo è stata decisiva nel concorso con le iniziative belliche degli Alleati per la liberazione dell’Italia, ma ha rappresentato la sola carta, la vera carta a nostra disposizione nel complesso gioco internazionale del dopoguerra.

Ma la Resistenza ha rappresentato anche la vera struttura “ideologica” che ha alimentato e orientato il dibattito costituente: la nostra Carta non sarebbe stata tale se il suo spirito, il suo respiro, la sua presbiopia politica, il suo sostrato valoriale non le fossero state “consegnate” dalla lotta di liberazione. Basti pensare all’ossatura dei “Principi fondamentali”. Mi piace evocare, a questo proposito, solo alcune battute di un dialogo fra due padri costituenti. A Piero Calamandrei che lamentava come la Costituzione risultasse “una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata”, Palmiro Togliatti rispondeva con la citazione raffinata dei versi di Dante: “Tu sei come colui che va di notte/e porta il lume dietro e a sé non giova/ma quei che segue fa persone dotte”.

Non c’è il tempo (e forse non è neppure l’occasione) per soffermarci ulteriormente sul testo costituzionale e rapportarlo allo spirito della Resistenza per individuarne le strettissime connessioni.

Sta di fatto che settantaquattro anni dopo quel “25 Aprile” sappiamo quanto le cose siano cambiate. In Italia e nel mondo. Chi governa il nostro paese oggi – se va bene – è indifferente rispetto allo spirito vitale (oggi si dovrebbe parlare di generatività culturale e politica) di quel grumo di anni – dal 1943 al 1948 – che ha conformato la nostra democrazia. Indifferenza che si estende ovviamente ai contenuti della Costituzione. Ma ciò che è cambiato è il contesto storico.

Il crollo del Muro, la globalizzazione finanziaria, la rivoluzione digitale, i cambiamenti climatici, la crisi demografica e i flussi migratori, la crescente richiesta di protezione indotta da campagne mediatiche che creano e alimentano allarmi sociali spesso infondati, stanno mettendo in discussione alleanze e equilibri internazionali in modo imprevisto e, contemporaneamente, mettono in discussione le stesse nozioni di sovranità e rappresentanza.

Non c’è dubbio che tali questioni trascendono i confini nazionali. Abbiamo già visto che a partire dagli USA di Trump e dal Brasile di Bolsonaro, anche in molti paesi europei il populismo è il serraglio in cui si rifugiano umori, rabbie e paure, nell’illusione di potersi difendere meglio dai grandi processi storici in atto.

E’ evidente che un partito democratico e riformista come il PD non può inseguire le destre, ma vi sono alcuni temi, come la crisi della rappresentanza che non possono essere elusi. Non so in che modo e in quali tempi, ma è prevedibile che si debbano rivedere le forme della partecipazione e, dunque, della rappresentanza.  Soprattutto le generazioni nuove, native digitali come si dice, chiedono modalità di coinvolgimento diretto che necessariamente dovranno essere inventate. L’importante è che si proceda con lo spirito dei padri costituenti, che furono guidati dall’ambizione di pensare modelli di valenza transtemporale. Non ci bastava la divisione dei poteri pensata da Montesquieu – diceva Dossetti – volevamo aumentare la quantità  di democrazia, cioè di partecipazione, per poterne distribuire sempre di più. L’ambizione di pensare il futuro e la volontà di farlo condividere, sono condizioni che dovrebbero guidarci anche oggi. Fermo restando che, come dicevano i costituzionalisti classici, la Costituzione è quella Legge che i popoli si danno nei momenti di maggiore saggezza per difendersi dai momenti di maggiore dissennatezza. Finora ha funzionato.

Per essere sicuri che funzioni anche in futuro occorre che la classe dirigente che assumerà la sfida del rinnovamento abbia lo stesso coraggio, la stessa fortezza e la stessa sapienza storica dei nostri padri.

Pierluigi Castagnetti   (Da Democratica del 24/4/2019)

Nessun commento: