domenica 28 aprile 2019

“Capire la cattedrale del nostro tempo”, editoriale pubblicato su Il Foglio del 17 aprile 2019



La ricostruzione di Notre-Dame ci ricorda chi siamo e chi vogliamo essere. Difficile non piangere davanti a Notre Dame che brucia. I cinici direbbero che sono lacrime inutili: le lacrime non spengono gli incendi, non servono. Eppure sono lacrime preziose perché ci dicono chi siamo davvero.
Nella storia dell’Umanesimo, la costruzione di una cattedrale è il momento in cui un insieme sgangherato di donne e uomini diventa popolo. Smette di essere, semplicemente, la gente: diventa comunità. L’Europa medievale deve molto alle scelte di chi costruisce le cattedrali. Perché, sì, la cattedrale è il luogo della preghiera, dell’incontro con Dio. Ma è anche il luogo dell`incontro del popolo. Vi si sperimentano soluzioni tecniche ardite, innovative. Qui si sfida il tempo: chi inizia la costruzione non ne vedrà la fine, in una staffetta generazionale di dedizione, arte, passione, tenacia. Ma anche se sa che non sarà presente il giorno dell’inaugurazione, posa comunque la propria pietra.
Notre-Dame può diventare un sogno per i costruttori di cattedrali del futuro perché posando quella pietra contribuisce al proprio essere cittadino. Riconosce, in quel gesto, l’appartenenza a qualcosa di più grande di lui. Quanto avremmo bisogno ancora oggi di appartenenza in un mondo in cui sembra trionfare l’apparenza. Una vita fa, quando la mia attività principale era fare il caposcout oltre che lo studente di Giurisprudenza, avevo un’autentica passione per i costruttori di cattedrali. Ne scrivevo, assieme ad amici, sui giornali scout. Leggevamo il Paul Claudel dell’Annuncio a Maria colpiti dal dialogo tra Pietro di Craon (“Non alla pietra tocca fissare il suo posto, ma al Maestro dell’Opera che l`ha scelta”) e Violaine (“Siate uomo, Pietro. Siate degno della fiamma che vi consuma. E se bisogna essere divorati, sia ciò su un candelabro d’oro come il Cero Pasquale in mezzo al coro per la gloria di tutta la Chiesa”). Leggevamo il Mario Luzi dell`Opus Florentinum in cui si narra la costruzione di Santa Maria del Fiore (“Crescerà certo in altezza questo tempio, sovrasterà le care antiche chiese della nostra cinta ma a farlo grande sarà la nostra fede e non la sua misura, la pietà tenace e forte della gente fiorentina”).
Sognavamo i passi verso la cattedrale di Chartres di Guy de la Rigaudie, il rover leggendario, e naturalmente di Charles Péguy magnificamente ricordati ieri sul Foglio da Maurizio Crippa: “Ecco il luogo del mondo dove tutto diviene facile”.
Da lunedì sera non penso che a Notre Dame. La cattedrale che è il simbolo di Parigi almeno quanto il Louvre e la Torre Eiffel. La cattedrale che ha affascinato generazioni intere di cittadini del mondo, la cattedrale di cui non ha potuto fare a meno Napoleone, la cattedrale delle preghiere e dei romanzi. In molti hanno scritto che l`immagine della guglia che crolla, del fumo che divampa ovunque, delle fiamme che bruciano in mezzo a Parigi sono il segno della disfatta dell`Europa. Terribile presagio di ciò che attende la Francia e l`intero Vecchio continente. Non sono d’accordo. Penso che sia vero il contrario. Il dolore è immenso, certo. Ma questo è il momento da cogliere. Adesso è il tempo di vivere. Di costruire. Di ricostruire.
Ricostruire Notre Dame è la grande occasione per i costruttori di cattedrali del XXI secolo. Ricostituire il cristianesimo in Francia, mai in crisi come in questo periodo nella terra di Giovanna d’Arco e di Maritain, del curato d’Ars di Bernanos e di Mounier. Ricostituire l`identità francese impaurita e dilaniata dalle tensioni non solo nelle banlieue. Ricostituire la cattedrale come simbolo di un popolo europeo che non si accontenti di essere solo gente, che non si faccia terrorizzare dagli estremisti e dai sovranisti.
E’ vero, i cinici non sbagliano: le lacrime sono troppo deboli per spegnere un incendio. Ma le lacrime ci ricordano che siamo ancora capaci di emozionarci per qualcosa che non è nostro, eppure ci appartiene. Ci ricordano che nel tempo dei robot e dell`intelligenza artificiale noi siamo i valori che difendiamo, la cultura che esprimiamo, la bellezza che ammiriamo. Parigi, la Francia, l`Europa ricostruiranno Notre Dame. In questi casi si finisce con la frase a effetto: e sarà più bella di prima. No, non è vero. Non sarà più bella di prima. Ma sarà la Cattedrale di cui ha bisogno il nostro tempo. La bellezza che servirà a ricostruire questa cattedrale non sarà solo la qualità artistica o l’ingegno tecnico: sarà la bellezza che serve ai cittadini del XXI secolo per essere pionieri, curiosi, tenaci. Sarà la bellezza che serve perché noi cittadini del XXI secolo possiamo essere donne e uomini e non cibo per algoritmi. C’è da ricostruire una cattedrale: dopo il dolore delle fiamme, questa è un’occasione da non sprecare. Per ricordarci chi siamo e chi vogliamo essere.

Matteo Renzi

7 Aprile 2019: un anno di Harambee



"C'è un altro tempo, il kairos, che è il tempo opportuno, la tua possibilità. quel tempo che può significare qualcosa di invisibile ai più: una storia che prende corpo, una vita che nasce, una rivoluzione mentre ancora per tutti è tempo di inerzia", grazie


Matteo Richetti per la bellissima giornata del 7/4/2019 

venerdì 26 aprile 2019

25 Aprile 1945-2019: la Resistenza rappresenta le radici della nostra democrazia



Anche il 25 aprile è entrato nella campagna elettorale. Da un lato Salvini che cerca di intercettare i voti della destra e di quanti pensano che ormai, a tanti anni di distanza, non sia più il caso di parlarne, e dall’altro Di Maio che, per mera contrapposizione, cerca di denunciare il pericolo di negazionismo. Entrambi però sfuggono dal cuore del problema che è quello di fare memoria delle radici della nostra democrazia.

Purtroppo nell’ingolfamento dei giorni in cui si fa memoria di qualche evento straordinario, questa data rischia di essere derubricata mentre  ha una sua specifica portata genetica che dovrebbe continuare ad essere valorizzata: da quel giorno nascono infatti un regime di libertà, la democrazia, il percorso che porterà alla Costituzione.  Sicché potremmo definire il 25 aprile come la festa della liberazione (dal fascismo e dall’occupante nazista); la festa dell’indipendenza nazionale; la festa della sovranità del popolo; la festa dell’unità nazionale; la festa della libertà; la festa della solidarietà; la festa della democrazia; la festa della pace; la festa del recuperato prestigio e onore italiano davanti agli occhi del mondo.

Dovremmo ricordare che la nascita formale della Repubblica, come sappiamo, attraverso il referendum celebrato, regnante ancora Umberto II, fu salutata dalla stampa internazionale come un grande esempio di civiltà del nostro paese, e fu il primo riconoscimento positivo dopo l’umiliazione subita dalle tragiche avventure scatenate dal fascismo. E quando ci sarà il difficile rientro nel consesso internazionale il 10 agosto 1946, nella Conferenza della Pace di Parigi, all’Italia fu consentito di esprimere il proprio parere, pur nel clima ostile che aveva preparato un trattato di pace per noi particolarmente duro.

Il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi presentò come credenziali della nuova Italia l’unità delle forze antifasciste, con parole che vale la pena ancora oggi rileggere: “Signori, è vero, ho il dovere dinnanzi alla coscienza del mio paese, e per difendere la vitalità del mio popolo, di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico e antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in se le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire… Il rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato così profondo se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazione dei patrioti che in patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza l’intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l’abile azione clandestina degli uomini dell’opposizione parlamentare antifascista… Le perdite nella resistenza contro i tedeschi furono di oltre centomila uomini fra morti e dispersi, senza contare i militari e i civili vittime dei nazisti nei campi di sterminio, e i cinquantamila patrioti morti nella guerra partigiana”.

Questa lunga citazione per dire che la Resistenza non solo è stata decisiva nel concorso con le iniziative belliche degli Alleati per la liberazione dell’Italia, ma ha rappresentato la sola carta, la vera carta a nostra disposizione nel complesso gioco internazionale del dopoguerra.

Ma la Resistenza ha rappresentato anche la vera struttura “ideologica” che ha alimentato e orientato il dibattito costituente: la nostra Carta non sarebbe stata tale se il suo spirito, il suo respiro, la sua presbiopia politica, il suo sostrato valoriale non le fossero state “consegnate” dalla lotta di liberazione. Basti pensare all’ossatura dei “Principi fondamentali”. Mi piace evocare, a questo proposito, solo alcune battute di un dialogo fra due padri costituenti. A Piero Calamandrei che lamentava come la Costituzione risultasse “una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata”, Palmiro Togliatti rispondeva con la citazione raffinata dei versi di Dante: “Tu sei come colui che va di notte/e porta il lume dietro e a sé non giova/ma quei che segue fa persone dotte”.

Non c’è il tempo (e forse non è neppure l’occasione) per soffermarci ulteriormente sul testo costituzionale e rapportarlo allo spirito della Resistenza per individuarne le strettissime connessioni.

Sta di fatto che settantaquattro anni dopo quel “25 Aprile” sappiamo quanto le cose siano cambiate. In Italia e nel mondo. Chi governa il nostro paese oggi – se va bene – è indifferente rispetto allo spirito vitale (oggi si dovrebbe parlare di generatività culturale e politica) di quel grumo di anni – dal 1943 al 1948 – che ha conformato la nostra democrazia. Indifferenza che si estende ovviamente ai contenuti della Costituzione. Ma ciò che è cambiato è il contesto storico.

Il crollo del Muro, la globalizzazione finanziaria, la rivoluzione digitale, i cambiamenti climatici, la crisi demografica e i flussi migratori, la crescente richiesta di protezione indotta da campagne mediatiche che creano e alimentano allarmi sociali spesso infondati, stanno mettendo in discussione alleanze e equilibri internazionali in modo imprevisto e, contemporaneamente, mettono in discussione le stesse nozioni di sovranità e rappresentanza.

Non c’è dubbio che tali questioni trascendono i confini nazionali. Abbiamo già visto che a partire dagli USA di Trump e dal Brasile di Bolsonaro, anche in molti paesi europei il populismo è il serraglio in cui si rifugiano umori, rabbie e paure, nell’illusione di potersi difendere meglio dai grandi processi storici in atto.

E’ evidente che un partito democratico e riformista come il PD non può inseguire le destre, ma vi sono alcuni temi, come la crisi della rappresentanza che non possono essere elusi. Non so in che modo e in quali tempi, ma è prevedibile che si debbano rivedere le forme della partecipazione e, dunque, della rappresentanza.  Soprattutto le generazioni nuove, native digitali come si dice, chiedono modalità di coinvolgimento diretto che necessariamente dovranno essere inventate. L’importante è che si proceda con lo spirito dei padri costituenti, che furono guidati dall’ambizione di pensare modelli di valenza transtemporale. Non ci bastava la divisione dei poteri pensata da Montesquieu – diceva Dossetti – volevamo aumentare la quantità  di democrazia, cioè di partecipazione, per poterne distribuire sempre di più. L’ambizione di pensare il futuro e la volontà di farlo condividere, sono condizioni che dovrebbero guidarci anche oggi. Fermo restando che, come dicevano i costituzionalisti classici, la Costituzione è quella Legge che i popoli si danno nei momenti di maggiore saggezza per difendersi dai momenti di maggiore dissennatezza. Finora ha funzionato.

Per essere sicuri che funzioni anche in futuro occorre che la classe dirigente che assumerà la sfida del rinnovamento abbia lo stesso coraggio, la stessa fortezza e la stessa sapienza storica dei nostri padri.

Pierluigi Castagnetti   (Da Democratica del 24/4/2019)

giovedì 25 aprile 2019

25 Aprile 2019: Festa di Liberazione



Chi usa la nostra liberazione per cercare qualche voto in più da ambienti nostalgici o da nuovi militanti di destre in costruzione ha la memoria corta, la vista offuscata da strategie di corto respiro e poco futuro.

Noi siamo pronti a celebrare con tutti i democratici un passaggio chiave della nostra storia, del vissuto comune di generazioni d’italiani. Lo facciamo con convinzione, gratitudine per chi non c’è più e speranza per chi non ha conosciuto pagine di un passato lontano.

Si discute del 25 aprile e delle sue eredità per mettere in discussione l’origine del nostro dopoguerra, le radici della Costituzione, il sigillo di nascita dell’Italia Repubblicana.

Chi punta a lacerare il tessuto di una comunità nazionale lo fa per calcoli di bottega alla ricerca di consensi in una perenne campagna elettorale. Ma le radici della Repubblica sono solide, quella festa è al tempo stesso la chiusura di una fase e l’inizio di una nuova storia. La fine del fascismo e delle sue guerre e l’avvio della costruzione di una inedita architettura politico-istituzionale.

La stagione della Resistenza non si esaurisce nel biennio 1943-1945, la sua carica costruttiva si spinge più avanti incontrando così le ragioni e le fatiche di una democrazia in formazione.

Sarebbe davvero triste dover ulteriormente assistere al balletto delle presenze alle celebrazioni ufficiali: chi prende le distanze, chi è in dubbio sulla partecipazione e chi invece sottolinea la centralità istituzionale di un tornante fondativo.

Ma se le parole giungono da chi ricopre alte cariche istituzionali, da chi rappresenta lo Stato nelle sua funzioni più impegnative e rappresentative allora tali parole sono pericolose, cariche di ambiguità e terribili contraddizioni.

Talvolta le parole sono pietre, segnano il cammino orientando comportamenti, riferimenti ideali, stili di vita.

Non possiamo né dobbiamo girarci dall’altra parte. Mentre festeggiamo la liberazione dal nazifascismo prendiamo le distanze da chi vorrebbe ridurre il significato di una svolta sofferta e decisiva, la premessa alla costruzione delle tappe di un lungo dopoguerra.

Del resto le radici e le ragioni della sinistra non sono separabili dagli esiti della guerra mondiale, dalle eredità della dittatura, dalla consapevole realizzazione di un perimetro comune, condiviso e inclusivo. Ecco il punto dirimente che ci riguarda a oltre settant’anni di distanza dalla liberazione di Milano e dallo straordinario comizio tenuto da Sandro Pertini in piazza Duomo.

Quella liberazione ha permesso a tutti (vincitori e vinti, fascisti e antifascisti) di trovare uno spazio, un ruolo e una funzione nella nuova Italia in costruzione.

Un’apertura di credito e di fiducia nelle italiane e negli italiani, in uno spirito costituente che senza cancellare differenze e scelte individuali traccia una rotta, un senso di marcia che interroga il destino di chi si mette in cammino. Altro che equiparazioni inaccettabili!

Una cosa è la pietas per chi ha perso la vita, per le tante biografie giovani spezzate dalle logiche della guerra civile, altro è mettere sullo stesso piano resistenti e repubblichini, chi sta con la libertà e la democrazia e chi si batte a favore del nuovo ordine hitleriano.

Sarebbe sufficiente richiamare il dialogo che attraversa le pagine de “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino tra il partigiano Kim e Ferriera componente del suo gruppo. Perché ci sono giovani che con tanto ardore combattono sul versante opposto? «Lo spirito dei nostri e quello della brigata nera la stessa cosa?».

Kim non sfugge la complessità del quesito: «La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, […] la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là
nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. […] Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra.

Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? Uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costituire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi».

Questa storia è ancora la nostra sfida in una giornata di festa.

Buon 25 aprile!

Nicola Zingaretti
Segretario del Partito Democratico